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Guglielmo Longobardo, la pittura degli anni settanta e la metamorfosi accademica

 
"La finestra sempre aperta" (2010) di Guglielmo Longobardo
 
Ideato dall’artista Giuseppe Leone, è un osservatorio sull’arte visiva che, attraverso gli scritti di critici ed operatori culturali, vuole offrire una lettura di quel che accade nel mondo dell’arte avanzando proposte e svolgendo indagini e analisi di rilievo nazionale e internazionale.
 

di Ilaria Sabatino

La pittura un linguaggio sempre in evoluzione, ma legato ai suoi canoni primari a cui tutti. o quasi, gli artisti fanno riferimento. L’artista Guglielmo Longobardo, ex docente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, portavoce di una pittura informale e riflessiva, il cui sguardo si rapporta ad una pittura di avanguardia preferendo, però, una pittura tradizionale. Un’arte accurata, profonda, colta, sensibile e individuale: un modo di dipingere diretto e incondizionato, usando delle tonalità equilibrate, trasmette una sorta di “armonia visiva”. Non parleremo solo di pittura, ma soffermeremo la nostra attenzione sulle trasformazioni che in questi anni sta vivendo il comparto Afam e che l’artista Longobardo ha vissuto in prima persona.

 

Artista del secondo 900, portavoce di una pittura informale e riflessiva. Cos’è cambiato oggi nella pittura? Come si pone il suo linguaggio?
Prima di rispondere, vorrei ricordare il maestro Armando De Stefano, un maestro della cultura napoletana, protagonista dal dopoguerra ad oggi, protagonista altresì della cultura italiana ed europea! Era un uomo da un carisma straordinario sia come docente all’Accademia sia come pittore, un’intelligenza raffinata, colta, sapeva ascoltare. Personalmente io devo molto al maestro De Stefano, tantissimi motivi di riconoscenza e di gratitudine, perciò ritengo doveroso ricordarlo in questo momento. Ritornando alla domanda, a mio parere, la pittura informale, quella degli anni cinquanta, è stata superata da un informale più analitico, più di contenuti, rispetto al gesto e all’istinto, per fare un esempio, alla Jackson Pollock o alla Emilio Vedova. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato di dare alla mia voglia, anche istintiva, di indagare la materia, il colore, il segno, sempre con dei contenuti, una maggiore razionalità. Il gesto fine a se stesso, non è che non mi è interessato molto, ma ho sempre cercato di trovare un giusto equilibrio tra ragione e sentimento.
Oggi cosa è cambiato? È cambiato, che ognuno, continua a fare quello che ritiene di saper fare! Diciamo che i paradigmi, gli schemi della pittura tradizionale rimangono un po’ quelli là, la pittura figurativa, naturalistica, astratta, informale e neo informale. Io sono rimasto legato alla pittura tradizionale e del resto non poteva che essere così, essendomi formato negli anni sessanta e settanta.

Che ricordi ha dei suoi anni in Accademia?
Riguardo l’Accademia, posso dire, che ho attraversato tutto il suo processo di trasformazione. Proprio in questi giorni ho rivisto il mio diploma, che ha tre voti: decorazione, incisione e storia dell’arte. Erano i primissimi anni settanta ed anche in seguito alle contestazioni studentesche, c’era questo clima di rinnovamento, ed io mi sono trovato assistente a Catanzaro, a fare i conti con un’Accademia che cresceva sia nei numeri delle iscrizioni, perché non era più la scuola sconosciuta, ma cominciava a mutare aspetto, perché giustamente si riteneva che anche chi dipingeva, lo scultore, il pittore, lo scenografo, doveva avere un bagaglio culturale adeguato. Quindi ci fu l’inserimento nei piani di studio di una serie di materie, che allora si chiamavano corsi complementari. Col passare degli anni, in effetti, che cosa è successo, che è aumentata questa idea di Accademia/Università, con piani di studio sempre più complessi, con esami sempre più frequenti, con tante materie che hanno tolto spazio fisico e mentale alla platea studentesca, rispetto ai tempi miei di studente. Quando facevo io l’insegnante non c’erano più gli spazi a disposizione per i ragazzi, ma erano anche gli spazi mentali che mancavano, perché esami in continuazione, occorreva studiare, poi le frequenze, le lezioni. Quindi passava un po’ in secondo ordine il fare, il prodotto, e secondo me, non si è tenuto conto che bisognava non fare un contenitore di tutto, ma a suo tempo proposi una cosa che si avvicinava un po’ come idea alla facoltà di Lettere classiche e Lettere moderne. Pensavo ad un Accademia, con due indirizzi, uno più tradizionale che dava più spazio alle tecniche, al fare, al prodotto, al manufatto e un’altro, invece, più sperimentale, più colto da un punto di vista del bagaglio culturale necessario agli studenti, agli operatori artistici. Questo non è avvenuto, quindi si è tentato e si è cercato in ogni modo di tenere tutto insieme, la moda con la pittura, con la scultura e quindi si è fatto un po’ di confusione. Pertanto non so il risultato dal punto di vista del prodotto, a livello qualitativo a che punto siamo, non essendo più in Accademia da una decina di anni, da quando sono andato in pensione. Sempre in quel periodo con Ninì Sgambati, un collega dell’Accademia, pensavamo di evitare questa corsa di trasformare l’Accademia in Università, riflettevamo, ognuno a modo suo naturalmente, che bisognava mantenere l’Accademia in questo ambito, un po’ anomalo, un po’ particolare, nel quale spazio, nel quale luogo, praticamente dovevano esserci ragazzi, studenti motivati.
Perché fare dell’Accademia una scuola di massa? A mio parere, non so cosa possa significare, non ci possono essere migliaia di artisti all’anno, che poi fanno la professione. Ritenevo, che in qualche modo bisognava salvaguardare questo ambito un po’ più anomalo, particolare, di una scuola che non è una scuola, ma un luogo dove si coltivano le proprie passioni, i propri sogni, il luogo dell’esistenzialismo più impegnativo, dal punto di vista del fare le cose. Per tale motivo, ripeto, era importante in primis, stabilire un indirizzo di sperimentazione e di contemporaneità e salvaguardare nello stesso tempo un po’ quelli che, sono diventati adesso i rami secchi, la pittura, la scultura, cioè il fare, il manufatto, il dipingere, il disegnare. Non dico che bisognava tenere le cose come negli anni cinquanta, ma seguire meglio tutto il processo di trasformazione, con più attenzione, senza creare un contenitore indefinito, in cui c’è tutto. Bisognava, forse, salvaguardare e negli spazi fisici e negli spazi mentali, coloro che avevano la voglia, l’esigenza, la necessità di tentare quella strada lì, dell’artista, del pittore, dello scultore. In ogni caso, non è neanche tutto sbagliato quello che è successo, non vorrei essere estremamente critico, ma ho avvertito tutto ciò in prima persona, avendo girato un po’ l’Italia. Sono stato a Urbino, a Bologna, a Catanzaro, a Foggia, a Napoli, e vissuto questa metamorfosi dell’Accademia, che alla fine, penso, abbia un po’ snaturato quello che era l’originaria idea di luogo delle arti, in cui si formavano gli artisti, una bottega nella quale i ragazzi potevano cogliere gli aspetti più interessanti del maestro oppure tra di loro confrontarsi. Invece, ad un tratto, si parlava solo di esami, ricordo negli ultimi anni di insegnamento, tutti i problemi erano gli esami, il voto, invece, prima c’era una competizione sul manufatto. Ai miei tempi la discriminante era se sapeva o non sapeva fare, se era bravo o non, ci si soffermava sul prodotto, era quello che ti dava un’identità non il voto.

Come sta vivendo da artista questo momento?
Penso che per un’artista, uno come me, un pensionato artista, cambia poco o niente, nel senso che stai tre o quattro ore nel tuo studio e non corri, diciamo, alcun rischio, in definitiva è cambiato ben poco. Ho avuto anche un’esperienza di positività asintomatica uscendone brillantemente! Il fatto è che non ci sono mostre, non ci sono occasioni di incontri importanti, in alcune gallerie, dato il momento, e a cui personalmente avrei evitato di presenziare, essendo, anche, un pittore molto riservato. Comunque il mio lavoro sta andando avanti, sto lavorando, pertanto da un punto di vista professionale è cambiato poco o niente. Il mio pensiero riguarda i giovani, l’economia, il momento che stiamo attraversando è molto difficile e complesso.

in foto Guglielmo Longobardo (ph Fabio Donato)

“Prova colore” 2008, di Guglielmo Longobardo